Disponibile in eBook e cartaceo
La vita di Samuela e
dei suoi figli è una continua montagna russa tra casa, lavoro, asilo, per non
parlare di giochi scatenati, ginocchia sbucciate e bernoccoli in ogni dove.
Rimasta vedova di un marito che la tradiva, l’unica persona su cui può contare
è l’amica Caterina, frizzante proprietaria di una pasticceria sull’orlo del
fallimento.
Entrambe hanno giurato fedeltà
al cioccolato e di non volere mai più un uomo nella loro vita, ma il destino
non la pensa allo stesso modo e a Samuela capita uno strano incontro. Demetrio
è un uomo fuori dal comune e un padre meraviglioso per le sue gemelle, anche se
non sa fare i codini né le collanine e confonde le principesse dei cartoni
animati. Superata la diffidenza
iniziale, l’amicizia tra Sam e Dem rende tutto più facile perché insieme
formano una squadra formidabile: lei sa infilare le perline con le gemelle e
lui tre cesti di fila con le due pesti. Inoltre Demetrio è un uomo bellissimo
che risveglia in lei desideri sopiti, che credeva spenti per sempre. In poco
tempo diventano una tribù affiatata, ma Demetrio vuole di più e non ne fa
mistero mentre Samuela avanza e indietreggia, confusa dalle sue paure.
Mentre Caterina viene
salvata dalla crisi dal misterioso becchino del paese, la tribù diventa sempre
più unita finché un segreto nel passato di Demetrio rischia di rovinare tutto.
Samuela non accetterà un uomo che le mente e Demetrio dovrà lottare per
conquistare la sua fiducia e il suo amore.
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Capitolo 1
Estate
2013
Il sole di giugno si era finalmente mostrato, dopo
giorni di pioggia battente, e asciugava il prato con i suoi caldi raggi. Purtroppo
non era infrequente per la mia città avere settimane di pioggia ininterrotta:
Varese, la città giardino, poteva trasformarsi in una giungla tropicale con il
periodo delle piogge lungo mesi. Quel giorno non avevo potuto evitare un giro
al parco giochi, nonostante le pozzanghere enormi. Sette giorni chiusi in casa erano
stati un incubo per i miei bambini che non vedevano l’ora di scendere dallo
scivolo e saltare nelle pozzanghere, ve l’ho detto che erano enormi?
Max correva come una scheggia impazzita, finalmente
libero di respirare a pieni polmoni e urlare la sua gioia. Il piccolo Gio lo
seguiva come un’ombra, sforzandosi di restare al passo con le sue tozze
gambine. Intanto io consumavo un intero pacchetto di fazzoletti per asciugare
lo scivolo di plastica gialla da cui dovevano assolutamente scendere, ad ogni
costo. Eravamo soli, gli unici pazzi a uscire subito dopo l’acquazzone.
«Bambini ho finito, venite pure!»
Un urlo festoso accolse la notizia e Max virò
verso di me alla velocità della luce mentre Gio, preso alla sprovvista,
caracollava di traverso per poi finire con le ginocchia a terra. Si rialzò immediatamente
e dopo una sfregata di mani ricominciò a inseguire il fratello. Aveva due
macchie enormi sui jeans, indossati appena un’ora prima, ma per fortuna nessuno
strappo, non ancora almeno. Mi stupivo ogni giorno di quanto fossero fisici i
miei figli, sempre a spintonarsi e abbracciarsi come se volessero strangolarsi
a vicenda.
«Grazie mamma, io scivolo subito!»
Max salì i pioli di legno come una saetta e corse
lungo il ponticello fino allo scivolo giallo che avevo appena asciugato.
«Bravo tesoro, fermati a quello perché l’altro è
troppo alto per tuo fratello.»
Non ricevetti risposta, ma non era insolito: con
Massimo io parlavo, spiegavo, ripetevo e lui mi ignorava. A volte annuiva
concentrato ma in realtà non ascoltava una sola sillaba o, se lo faceva, dimenticava tutto in un nanosecondo.
Gio salì la scaletta con meno agilità, ma un’enorme determinazione e le mie
mani, dietro di lui, pronte ad acchiapparlo se fosse precipitato. Mentre
percorreva lo spazio verso lo scivolo mi spostai di fronte per assicurarmi che
si sedesse bene e poi arrestare la sua discesa. Filò tutto liscio e ricominciammo
da capo la nostra danza: scaletta, passerella, io che mi sposto davanti e giù! Avremmo
continuato per almeno mezz’ora e avrei creato un sentiero sotto ai miei piedi a
furia di andare avanti e indietro. Ormai mi ero rassegnata ad avere due
scalmanati per figli e non guardavo più con invidia le mamme che stazionavano
all’altalena, una mano per spingere e l’altra sul cellulare a navigare, che
dopo dieci minuti se ne andavano via felici
e con i vestiti puliti. Noi di solito finivamo per litigare e alla fine
trascinavo via i miei figli sotto minacce varie tipo “niente tv”, “non ti regalo
il T-rex che volevi” oppure “per favore, ti compro le caramelle”. Ok, l’ultima
era più una supplica pietosa, ma a volte ero disperata e comunque funzionava.
Al decimo giro di scivolo Max decise di provare il
brivido dell’altezza e invece di fermarsi a quello giallo, curvò e proseguì sul
ponte fino allo scivolo alto, il famigerato blu, che avevo sempre vietato.
«Max torna indietro, scendi da quello giallo!»
«Ce la faccio mamma, non è alto!»
«Max, guarda che torniamo subito a casa!» Urlai con
foga mentre seguivo con gli occhi Gio che aveva snobbato lo scivolo “per i
piccoli” e si era lanciato all’inseguimento di suo fratello. «Max aiuta tuo fratello,
è troppo alto per lui!»
Ovviamente il mio primogenito mi ignorò, scivolò
felice fino a terra e corse di nuovo verso la scala. Intanto Giovanni era in
piedi sulla sommità dello scivolo dove non riuscivo a toccarlo, per quanto mi
alzassi sulle punte dei piedi e allungassi le braccia. Cominciai a sudare
freddo mentre mio figlio, estremamente soddisfatto di sé, alzava le mani al
cielo.
«Gadda, gande!»
«Sì, lo vedo che è grande ma tu siediti e scivola
bene!»
Se fossi riuscita a convincerlo avrei potuto
acchiapparlo a metà scivolo, prenderlo in braccio e fargli dire addio al parco
per almeno dieci anni. Ovviamente lui non mi ascoltò, non lo faceva mai
nessuno, e continuò a vantarsi di quanto fosse grande. I miei nervi erano a
fior di pelle mentre lo immaginavo cadere di testa e causarsi un trauma cranico
o lesionarsi la spina dorsale o rompersi tutti gli arti.
«Gio siediti e scivola! Guarda, Max è andato
sull’altro giochino!» Purtroppo la notizia lo spinse a sporgersi per
controllare suo fratello e in quel momento fui certa che sarebbe precipitato da
lassù. «Attento, cadi!»
Ormai stavo urlando e battevo la mano sulla
plastica del maledetto scivolo quando un’ombra oscurò il sole alle mie spalle e
due braccia muscolose si allungarono sopra di me verso mio figlio. Mi voltai di
scatto e vidi un uomo enorme superarmi e afferrare il mio bambino per la vita.
Il sospiro di sollievo si mescolò a un altro genere di ansia mentre osservavo
quell’energumeno. Era alto almeno un metro e novanta, con pantaloni neri e una
camicia verde scuro, risvoltata sulle braccia poderose. Aveva capelli corti, scuri
e la mascella dai lineamenti duri, per quel che riuscivo a intravedere dalla
mia posizione. La schiena e le spalle apparivano enormi e i muscoli delle
braccia si gonfiarono mentre sollevò Gio ancora più in alto dello scivolo.
«Piccoletto, si ubbidisce alla mamma. Non hai sentito
che ti ha detto di scendere?»
Parlò con una voce profonda e un poco
intimidatoria mentre lasciava mio figlio sollevato in aria, come se non pesasse
nulla, quando invece con le sue cosce tornite e la pancetta aveva superato i quindici
chili. Pensai che sembrava un marine dei film americani e mi spaventai un poco
al pensiero del mio piccino tra quelle mani. Nella mente mi riecheggiò la
famosa battuta di uno dei film di Rocky Balboa: “ti spiezzo in due!”. Non
riuscivo a vedere il viso di Gio ma ero certa che fosse terrorizzato. Tossii
mentre toccavo il braccio dello sconosciuto per farmi restituire mio figlio.
Lui si girò mettendosi Gio sul fianco e mi fissò con gli occhi marroni più
scuri e profondi che avessi mai visto.
«La ringrazio.» Dissi mentre allungavo le braccia verso
il mio bambino. Gio però non era terrorizzato, anzi sembrava affascinato dal
tizio che lo teneva in braccio, tanto da non levargli gli occhi di dosso.
«Vai dalla mamma, ma fai il bravo.» Miracolosamente
Gio annuì e venne riluttante tra le mie braccia. «Devi sempre ubbidire alla
mamma, ci siamo capiti?»
Il tizio aveva modi decisamente autoritari e non
mi ero sbagliata sulla severità dei suoi tratti, la spigolosità era evidenziata
da una perfetta rasatura. Poi sorrise e tutto cambiò, non sembrava più un
marine con la licenza di uccidere, ma un simpatico ninja buono come quello dei
cartoni animati. Gli occhi si illuminarono e ai lati comparvero delle rughe
d’espressione molto affascinanti. La bocca era splendida, con le labbra carnose
e i denti bianchissimi e perfetti. Mi mancò il fiato per un istante prima di
ricordarmi che, marine cattivo o ninja buono, il tizio era fuori posto in un
parco per bambini. Un parco che al momento era deserto fatta eccezione per noi
quattro. Mi voltai alla ricerca di Max e lo individuai al secondo gioco, quello
per bimbi piccoli, come lo chiamava lui.
«La ringrazio per l’aiuto.» Mi sforzai di guardare
di nuovo lo sconosciuto e lo scoprii a fissarmi con attenzione, rendendomi
ancora più nervosa. Che cosa poteva volere da me? Strinsi Gio un po’ più forte
e mi allontanai per riunire la squadra e darcela a gambe.
«È stato un piacere!» Rispose e anche se non
potevo vederlo, sentii il sorriso nella sua voce.
Quasi corsi verso Max e quando lo raggiunsi ero
senza fiato per l’accaduto.
«Andiamo a casa, è ora di tornare.»
«No mamma, ancora un pochino!»
«Max è tardi, ti va di andare a fare merenda in
pasticceria?»
«Sì! Ma tra cinque minuti, ti prego!»
Gio si risvegliò dal torpore dell’incontro e si
dimenò come un piccolo, pesante ippopotamo finché non lo misi a terra.
«Va bene bambini, ma basta scivoli. Potete andare
sulla giostra che gira.»
Incredibilmente mi diedero retta e si misero sul
sedile circolare mentre io li feci ruotare con un paio di spinte e mi misi in
attesa sulla panchina di fronte. Mi guardai intorno ma sembrava non esserci più
nessuno e mi domandai se mi fossi sognata il marine figo. Sembrava un attore
catapultato fuori da una scena eroica ed era assolutamente fuori posto e un po’
inquietante in un parco per bambini.
«Di nuovo buongiorno.»
Sobbalzai sulla panchina riconoscendo il suono di
quella voce, anche se il tono non era severo come con Gio, ma gentile. Mi
voltai proprio mentre il marine si sedeva al mio fianco, anche se a una giusta
distanza.
«Mi scusi, non volevo spaventarla.»
«Non l’avevo vista.»
«È difficile portarli via da qui, vero?» Indicò i
miei figli con la mano e il sorriso sulle labbra. «Ha provato con la
corruzione? Un gelato o patatine magari?»
Annuii con un sorriso teso sulle labbra mentre
cercavo di non incoraggiarlo e allo stesso tempo di non farmi venire un
infarto. Mi guardai intorno, ma eravamo proprio soli. Cosa voleva quel tizio da
noi? Come potevo scappare se avesse avuto cattive intenzioni? Era una montagna
e io avevo i miei bambini da difendere. Infilai la mano nella tasca dello
zainetto per cercare il cellulare, un gesto totalmente inutile.
«Sono molto carini, come si chiamano?»
Lo sconosciuto continuava a guardare i miei figli
sorridendo e un brivido mi corse lungo la schiena. Gio si accorse della sua presenza
e lo salutò con la manina mentre Max, che ovviamente aveva sentito tutto,
rispondeva affabile. «Io sono Massimo e lui è Gio. Io ho quattro anni e mezzo,
quasi cinque, lui solo due.»
«Due, due!» Urlò Gio alzando prima tre e poi,
confuso, quattro dita in aria.
«Che bello e dove abitate?» Per un attimo temetti
che Max si mettesse in mostra recitando l’intero indirizzo che gli avevo insegnato
con insistenza. Fortunatamente lui era distratto e stava fissando il tubo sopra
il giochino dei piccoli, che univa le due estremità con scala e scivolo.
«Ci sono due scoiattoli!»
Il tizio al mio fianco rise e mi accorsi che mi
stava fissando, in attesa di una risposta. Non gli avrei detto dove abitavamo
per niente al mondo, ma il mio silenzio non lo scoraggiò affatto.
«Non ci siamo mai visti qui, ci venite spesso?»
«No.»
Il tizio mi fissò intensamente, soppesandomi. «Forse
ti sto disturbando con le mie domande?»
«Non so proprio dove vuoi andare a parare con
questo interrogatorio.» Sbottai mentre il cuore accelerava i battiti e io meditavo
come fuggire.
«Come?» Chiese confuso e incrociò le braccia al
petto mentre mi guardava dubbioso. «Volevo solo fare conversazione mentre
aspettiamo seduti qui.»
Lo guardai con sospetto ma sembrava sinceramente
dispiaciuto e mi sentii in colpa, forse mi sbagliavo e lo stavo trattando male
ingiustamente dopo che aveva aiutato il mio piccolo Gio. Mi voltai per
osservare di nuovo intorno, ma il posto era deserto fatta esclusione per noi
due sulla panchina e i miei figli che blateravano di scoiattoli nascosti.
«Mi scusi, forse ho esagerato, ma non c’è nessuno
ed è strano che lei sia qui, solo, in un parco per bambini.»
Al tizio sembrò accendersi una lampadina mentre
capiva che lo stavo additando come possibile maniaco e alzò subito le mani al
cielo. «Non sono solo, ci sono le mie figlie lassù!» Indicò il tubo rosso del
gioco alla nostra destra. «Piccolette fatevi vedere per favore!»
Non comparve nessuno ma sentii delle risatine
sommesse.
«Sono scoiattoli mamma!» Urlò Max puntando il dito
e guardandomi come se non capissi nulla.
«Coatto!» Ribadì Gio al suo fianco e io mi sentii
un poco meglio e molto stupida.
«Oh.» Sentivo il viso bollente e mi posai le mani
sulle guance. «Oh, mi perdoni. Vado un po’ fuori di testa quando si tratta di loro
e non avevo proprio idea che fosse qui con le sue bambine.»
«Non fa niente.» L’uomo al mio fianco rise forte e
mi sentii proprio sciocca mentre guardavo il suo viso illuminarsi di allegria.
«Ora che abbiamo appurato che non sono un pervertito possiamo presentarci? Io
sono Demetrio e lassù ci sono Emanuela a Ginevra, ma non sono scoiattoli bensì
fatine.»
Altre risatine giunsero dal nascondiglio e io
sorrisi mentre il cuore rallentava i suoi battiti impazziti.
«Fate!» Disse Max con disprezzo e Gio lo imitò
alla perfezione. In quel momento apparvero due testoline alla fine del tunnel,
avevano capelli molto ricci e rossi. Quando alzarono i visetti verso di noi
notai due volti identici, graziosamente spruzzati di lentiggini e quattro occhi
verde oliva che mi guardavano con curiosità.
«Sono gemelle identiche?» Che domanda sciocca da
porre mentre scendevano insieme dallo scivolo tanto da sembrare un’illusione
ottica. Erano anche della stessa altezza, circa dell’età di Max, e vestite con
due tute identiche se non per il colore, blu una e verde l’altra. Sulle spalle
indossavano due piccole ali di stoffa e nelle manine impugnavano le loro
bacchette, chiaramente fatte in casa con cartoncino e stelle filanti.
«La fatina dei boschi è Emanuela mentre quella del
mare è Ginevra.» Disse con orgoglio Demetrio mentre io sorridevo alle piccole,
erano davvero graziose anche se non assomigliavano per niente al papà.
«Che bello vedere due fatine, siete le prime che
incontro!» In effetti a casa nostra c’erano stati solo uomini ragno, ninja,
pistoleri e spadaccini vari.
«Vuoi che ti faccio un incantesimo?» Mi chiese la
bimba con la tuta blu, Ginevra se non mi sbagliavo. Annuii e lei si consultò
con la sorellina per infine stabilire che servivano foglie e ghiande. Partirono
alla ricerca degli ingredienti magici mentre anche Max le rincorreva, ispirato
dalla parola ghiande, e ovviamente Gio seguiva a ruota.
«Allora come ti chiami?»
Mi voltai verso Demetrio che esibiva un sorrisetto
ironico e mi accorsi che non glielo avevo ancora detto.
«Samuela, piacere di conoscerti.» E finalmente gli
porsi la mano.
Capitolo 2
Un’ora più tardi eravamo seduti a un tavolino
nella nostra pasticceria preferita, gustando minuscoli e deliziosi dolcetti
insieme a due bicchieri di tè freddo e quattro succhi all’albicocca. Avevamo
parlato ancora sulla panchina al parco e avevo scoperto che Demetrio non
conosceva molti posti perché si erano trasferiti da poco in città a causa del
lavoro, professione su cui era stato vago quindi la mia ipotesi di marine
restava in piedi per il momento. Mi ero ritrovata a invitarli per la merenda,
stupendo me stessa per prima, e per un istante avevo temuto di essere stata
inopportuna, ma Demetrio aveva accettato subito e mi aveva seguito con il suo
furgone enorme fino a Gavirate. In pasticceria ci accolse subito Caterina, proprietaria
e mia migliore amica, che lo aveva squadrato per bene prima di farmi
l’occhiolino. Demetrio non se ne era accorto per fortuna.
Mi infilai in bocca una mini sfogliatina mentre i
bambini correvano alla vetrina per guardare le confezioni di cioccolatini con i
peluche. «Quindi da quando vi siete trasferiti?»
«Sono quasi due mesi. Ho preso in affitto un
appartamento in centro, ma non mi piace molto la posizione. La strada è molto
trafficata e si sentono rumori ad ogni ora, anche di notte. Voi dove state?»
«Noi abitiamo in provincia, vicino al confine
svizzero. Il paese si chiama Clivio, è piccolo e immerso nella natura. È molto tranquillo
e silenzioso, ma serve l’automobile per fare qualsiasi cosa.»
«Sembra bello e comunque anche noi utilizziamo tantissimo
la macchina. Non mi fido a portare le bambine in bicicletta in città.»
«C’è una pista ciclabile che gira tutto intorno al
lago, lo sapevi?»
«Sì, ci siamo stati una volta prima che iniziasse
il diluvio universale.»
«Questo è niente!» Risi della sua faccia
sconvolta. «Qualche anno fa ha piovuto ventinove giorni di fila. Li abbiamo
contati uno a uno, era un record credo. Dove abitavate prima?»
«A Latina, ho sempre vissuto lì, a parte qualche
trasferta di lavoro.»
Annuii, i marine viaggiano molto.
«Ema e Gin, via le bocche da quella vetrina!» Le
gemelle stavano baciando il vetro per lasciare le loro impronte. I miei figli
invece erano seduti per terra, nello spazio accanto all’espositore dove si
mettevano sempre e dove Caterina aveva piazzato un tappeto appositamente per
loro.
«Perché sorridi?» Mi chiese Demetrio mentre mi
fissava curioso.
«Oh niente, pensavo che anche noi usiamo i
soprannomi di tre lettere. Sam, Max e Gio come Ema e Gin.» Sollevai le spalle
pensando che era una sciocchezza ma lui sorrideva.
«E io per gli amici sono Dem. Come fa tuo marito o
compagno?»
«Solo Carlo.» Arrossii, imbarazzata come sempre,
ma era inevitabile parlarne anche se non mi piaceva. «È mancato poco più di due
anni fa.»
«Mi dispiace.»
«Grazie.» E ora avrebbe fatto i calcoli e avrebbe
mostrato pietà, capendo che era successo quando Gio era appena nato.
«Anche la mamma di Ema e Gin è deceduta, poche
settimane dopo la loro nascita.»
Mi voltai di scatto, sorpresa da quella
ammissione. Non era quello che mi aspettavo. «Mi dispiace. Com’è successo?»
«Un incidente. Non mi piace parlarne.»
«Certo, scusa, nemmeno a me!»
«Ok.» Mi sorrise debolmente senza aggiungere
altro, ma non ce n’era bisogno perché lo capivo fin troppo bene. «Ci prendiamo
altri cannoncini? Sono minuscoli ma deliziosi.»
In effetti le paste in formato mini erano perfette
per i bambini ma sparivano nelle sue mani grandi. Sorrisi e annuii mentre Caterina,
finalmente libera, veniva al nostro tavolo.
«Ciao, come va qui?»
«Demetrio lei è Caterina, proprietaria di questo
splendido posto e mia grande amica.»
Si strinsero le mani mentre lei continuava a
fissarlo con un sorrisetto sulle labbra. Potevo immaginare cosa stesse pensando,
visto che mi incitava da tempo ad uscire per “guardarmi intorno”. A quel punto
anche io le ricordavo che era separata da ormai quasi due anni e incitavo lei a
“guardarsi intorno”. Finivamo per concludere che non ne avevamo alcuna voglia.
«Questo negozio è delizioso, complimenti.» Disse
Demetrio con sincerità facendo brillare di orgoglio gli occhi della mia amica.
Caterina aveva investito tutto nella pasticceria e
ne era giustamente fiera. Era uno spazio piccolo ma molto accogliente, dipinto con
tinte pastello, con graziose vetrine e un angolo con uno scaffale di libri per
bambini e romanzi d’amore e d’avventura. I tavolini erano pochi ma sempre pieni
e spesso avevo osservato le persone più disparate rintanarsi all’interno in
cerca di pace, gustando le delizie che Caterina sapeva creare. Era una maga con
il cioccolato e i miei fianchi ne erano testimoni.
«Grazie. Non ti ho mai visto in giro, non sei di
questa zona?»
«Ci siamo trasferiti da poco e stiamo ancora
esplorando. Di certo questa diventerà una delle nostre tappe per la merenda. La
mie figlie hanno letteralmente divorato i pasticcini.»
«Mi fa piacere! Le tue bambine sono bellissime.
Laggiù ci sono dei libri per loro, anche se vedo che si stanno tenendo occupate
con i marmocchi di Sam. Che bella banda!»
Ci girammo in contemporanea a osservare i bambini
seduti per terra, in cerchio e a gambe incrociate, a scambiarsi ghiande e sassi.
«Vi lascio, il dovere mi chiama!» Esclamò Caterina
e se ne andò dopo avermi stretto un braccio con fare complice. Per fortuna
Demetrio non si accorse di nulla.
«È simpatica la tua amica e questo posto è davvero
bello. Grazie per avercelo mostrato.»
«Figurati, se vuoi sapere qualcosa chiedi pure.
Conosco molti luoghi per bambini, sono sempre a caccia di eventi per intrattenerli.»
«Ottimo perché io invece non so mai dove portarle.
Le ho iscritte all’asilo ma non ho ancora conosciuto nessun genitore e le
maestre dicono che stanno per conto loro.»
«Immagino che si facciano compagnia e non abbiano
bisogno di socializzare.»
«Sì, sono indivisibili ma non sono convinto che
sia un bene.»
«Non hai altri parenti in zona?»
Ero curiosa di saperne di più sulla sua
professione ma non osavo chiederglielo di nuovo visto che era stato evasivo.
«Nessuno. I miei genitori vivono a Latina e sono
figlio unico. Ho qualche cugino sparso per il mondo, ma non siamo in contatto e
comunque nessuno che abiti qui vicino. E voi?»
«Anche io sono figlia unica e i miei genitori
vivono a San Benedetto del Tronto. Siamo originari di lì, mi trasferii a Varese
per amore. I genitori di Carlo vivono qui e ci vediamo ogni tanto. C’è anche
uno zio giovanissimo, fratello minore di Carlo, ma studia all’estero e lo vedo
raramente.»
Oltre a Caterina, che era come una sorella, la
lista dei miei parenti era finita, non un granché come elenco e la lontananza
rendeva freddi i rapporti. Mi sentivo spesso sola e gestire i bambini era dura.
«In questi casi sono molto importanti gli amici. A
Latina potevo contare su Andrea e Sergio, che conosco da una vita, e le loro
mogli. Uscivamo spesso insieme e le bambine stavano bene. È stata dura dover
accettare il trasferimento.»
«Te lo hanno imposto?»
«Se non fossi venuto qui avrei dovuto lasciare il
posto oppure ricominciare a viaggiare e lasciarle sole per la maggior parte
dell’anno. Ho scelto il male minore, almeno credo.»
Demetrio guardò le figlie con adorazione e in quel
momento mi rispecchiai in lui perfettamente. Anche io avevo scelto la strada
che credevo meno dolorosa per Massimo, decidendo di restare nella città dei
suoi nonni dove già conosceva gli amichetti dell’asilo e della piscina.
«Ti capisco, non è mai facile. I miei genitori mi
avevano proposto di tornare a San Benedetto, ma qui avevo un lavoro e una casa
e Max era abituato alla sua routine. Non me la sono sentita di sradicarlo senza
nemmeno la certezza di un’occupazione.»
«Dove lavori?»
«In centro, sono impiegata presso lo studio di un
commercialista. Mi trovo bene e mi è stato concesso l’orario ridotto quindi non
mi posso proprio lamentare. E tu? Non ho capito bene di cosa ti occupi.»
“Sei davvero un marine?” Volevo chiedergli mentre
aspettavo la sua risposta.
«Sono consulente presso una multinazionale
petrolifera.» Rispose vago e abbassò lo sguardo sul mazzo di chiavi con cui stava
giocando. «I tuoi genitori non hanno intenzione di seguirvi?»
“Consulente di cosa e perché viaggiavi tanto?”
Avrei voluto chiedergli, invece lasciai correre. «No, accudiscono la sorella di
mia madre che non vorrebbe mai lasciare la sua casa. E i tuoi?»
«Sono in piena missione di convincimento. A mia
madre mancano tantissimo le bambine e non le piace l’idea che stiano con una
baby-sitter, ma mio padre non è propenso. Dice che è una città sconosciuta, noi
siamo fuori casa tutto il giorno, il clima è peggiore e mille altre scuse. Non
ha tutti i torti, ma sarebbe bello averli qui.»
Notai un’espressione preoccupata sul suo viso.
Immaginai che la distanza gli pesasse, proprio come a me, soprattutto considerando
l’età avanzata dei genitori. La salute dei miei era un problema che mi ponevo
spesso anche io, ma cercavo di non fasciarmi la testa prima del necessario.
«Quindi hai una tata che ti aiuta?»
«Per forza. Ho contattato un’agenzia ancora prima
di trasferirci e mi hanno mandato una ragazza. Le va a prendere all’asilo, le
accudisce e le fa cenare finché non torno dal lavoro.»
«Non sembri entusiasta.»
«Non molto. È una brava persona e si assicura che
non si facciano male, ma non le coinvolge in giochi o letture. Con mia madre
era diverso ovviamente, ma speravo di trovare una persona più empatica, che si
affezionasse a loro invece per lei è solo lavoro.»
«Per fortuna sono due e si fanno compagnia.»
«Sì, questo è vero.»
Nel frattempo era sopraggiunto Massimo che si
stava inerpicando sulle mie gambe per venire in braccio. Spostai indietro la
sedia per farlo accomodare. «Mamma, andiamo a casa nostra con Gin? Vuole vedere
il mio libro dei dinosauri, quello grande!»
«Sì, possiamo venire a casa tua?» Chiesero in coro
le gemelle, strappandomi un sorriso. Dubitavo che il tomo su velociraptor e
triceratopi potesse interessarle, non come ai miei figli che me lo avevano
fatto leggere e rileggere centinaia di volte. Però non mi sentivo a mio agio al
pensiero di invitarli, anche se Demetrio sembrava una persona normale e le
bambine erano eccezionali. E poi la casa era a soqquadro con lo stendino in
mezzo alla sala, giochi ovunque e forse
avevo lasciato i bicchieri usati sul
tavolo in cucina.
«Piccole, ormai è tardi e dobbiamo tornare a casa
e fare la doccia.»
«Ti prego papà!»
«Vedo due fatine proprio sporche! Però, magari, ci
potremmo rivedere al parco o in qualche altro bel posto?»
Demetrio mi osservò con un sorriso genuino e
speranzoso sulle labbra. Era stato gentile a trarmi d’impiccio e subito mi
vennero in mente un paio di luoghi da mostrar loro. Mentre quattro paia di
occhietti vispi mi fissavano, decisi per una gita molto carina e poco impegnativa.
«Sabato prossimo pensavo di andare a passeggiare
lungo un sentiero pianeggiante al Campo dei Fiori. È molto carino e poco
faticoso. Potremmo portarci la merenda.»
«La torta al cioccolato, mamma!» Esclamò Max
contento e io sorrisi mentre gli scompigliavo i capelli.
«Noi adoriamo il cioccolato, vero bimbe?» Le
gemelle mossero la testa su e giù in perfetta sincronia. «Noi porteremo gli abbeveraggi,
va bene?»
«Ok, mi sembra perfetto. Speriamo che il tempo
tenga.»
«Forse potresti darmi il tuo numero di cellulare,
per ogni evenienza? Abbiamo appurato che non sono Jack…» Demetrio si interruppe
guardando i bambini. «Né Hannibal, giusto?»
Sorrisi anche se le guance mi si surriscaldarono
immediatamente. Non avevo pensato che fosse un serial killer, ma uno squilibrato
sì. Presi il cellulare dalla tasca dei jeans e sbuffai. «Ok, dammi il tuo
numero poi ti squillo e lo salvi.»
Così nella mia rubrica, composta da numeri di
pediatra, asilo, piscina e pizzerie, comparve il contatto di un nuovo amico.
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